Circa un quinto della popolazione moderna riferisce sintomi riconducibili ad allergie alimentari, cioè a quel tipo di “reazioni avverse agli alimenti” nelle quali il sistema immunitario di persone predisposte reagisce producendo specifiche immunoglobuline.
Per diagnosticare molte delle allergie alimentari più comuni esistono oggi test sicuri e attendibili. Ad esempio, per la celiachia, erroneamente definita intolleranza al glutine, disponiamo di test (sierologia, assetto genetico, biopsia) molto affidabili.
Altra cosa sono le “intolleranze alimentari”, alla cui base non vi è un meccanismo immunomediato e per le quali non esistono in pratica test credibili, con poche eccezioni, quali quelle del “breath test” per la intolleranza al lattosio e del test allo xilosio per il malassorbimento.
Questa mancanza di test scientificamente convalidati per la diagnosi delle intolleranze alimentari ha favorito la moltiplicazione e la diffusione di un gran numero di test alternativi molto discussi e scarsamente attendibili, contro la cui inutilità e possibile dannosità si esprimono in continuazione le Società Scientifiche di Allergologia e quelle di Gastroenterologia.
È indubbio che, una volta che si sia identificata una reale situazione di intolleranza, eliminare almeno per un certo periodo dalla dieta gli alimenti ai quali si è davvero intolleranti dia, in genere, buoni risultati. Il problema consiste non solo nella difficoltà di individuare i prodotti alimentari realmente responsabili, ma anche nel gran numero di falsi positivi e di risultati erronei che scaturiscono dai già citati e costosi “test alternativi”: test cutaneo intradermico, test di citotossicità, misura dell’attività elettrica cutanea, biorisonanza, conta delle pulsazioni prima e dopo l’assunzione del cibo sospetto, cinesiologia applicata, ecc., per rifarsi all’elenco pubblicato dalla American Gastroenterologic Association.
Ma esiste un altro aspetto preoccupante della questione. Dato che questi test (che risultano positivi nel 90% dei casi!) spesso identificano da 5 a 15 o più intolleranze, e dato che i loro fautori, giocando anche sull’equivoco “intolleranze = ingrassamento”, escludono per vari mesi tutti i cibi “incriminati” dalla dieta dei pazienti; accade per questo che il “dimagrimento da semidigiuno” che ne consegue si accompagni a profondi sconvolgimenti degli equilibri della dieta quotidiana, tali da portare anche a malnutrizione e a vere e proprie sindromi da carenza. Inutile dire che questa “deprivazione nutrizionale” sfocia poi inevitabilmente nel rapido recupero di quel peso che è stato perduto senza nessun serio programma di rieducazione alimentare e di stile di vita.
E spesso, nei pazienti più fragili psicologicamente (pensiamo agli adolescenti), si possono innescare pericolosi squilibri dell’atteggiamento nei riguardi del cibo (ansia, paura verso certi cibi erroneamente ritenuti ingrassanti, ecc.), con il rischio di scivolare verso veri e propri disturbi del comportamento alimentare.
Insomma, cercare di dimagrire con una dieta che escluda gli alimenti risultanti “colpevoli” ad uno di questi test è arbitrario e sbagliato. È invece possibile utilizzare le indicazioni ricavate dai pochi test credibili per impostare una corretta terapie dietetica. Questo va fatto eliminando definitivamente (nel caso della celiachia e della intolleranza al lattosio) o temporaneamente, e secondo uno schema di rotazione, quei pochi cibi che siano stati identificati in modo credibile come cause dei sintomi di intolleranza. Tali alimenti vanno sostituiti in modo oculato – con l’aiuto del medico di famiglia o dello specialista – con altri prodotti che abbiano un valore nutritivo corrispondente ai cibi eliminati.
È solo in questo modo che si potrà ottenere una soddisfacente riduzione o la scomparsa dei sintomi sfavorevoli senza peggiorare la qualità complessiva della razione alimentare abituale.