Qualche tempo fa girava la notizia che il governo italiano avrebbe vagliato l’idea di tassare i “cibi spazzatura” (junk foods in inglese) perché giudicati i primi responsabili del dilagare dell’obesità e del diabete nella società moderna.
Iniziative analoghe sono già state prese in altri Paesi (a carico dei prodotti con troppi grassi saturi o troppo sale, delle bevande gassate e zuccherate o degli alcolici) con alterna fortuna.

Precisiamo innanzitutto che la prima responsabile delle “malattie da benessere” legate all’alimentazione è e rimane, insieme alla sedentarietà, la dieta nel suo complesso, ossia i tanti eccessi, piccoli e grandi, che compiamo a tavola ogni giorno. I prodotti presi di mira, invece, soprattutto perché in genere consumati fuori pasto, e quindi “in più”, sono solo la classica “goccia che fa traboccare il vaso”: e quindi la loro responsabilità, se esiste, è legata più ad un problema di quantità di consumo che a specifiche colpe derivanti dalla loro composizione.

Ma il punto sul quale bisogna insistere è che definire “non sano” o “spazzatura” un certo prodotto non ha alcun senso, così come non ne ha etichettarlo “alimento della salute”. Sono termini vuoti di significato ed anche diseducativi, dato che ci allontanano dal concetto-base che tutto dipende dalle dosi e dagli equilibri complessivi della razione alimentare abituale. “Qualunque cibo può diventare uno junk-food se consumato in eccesso”, scriveva saggiamente già negli anni ’80 Fredrick J. Stare, fondatore dell’Harvard Univ. Dept. of Nutrition.

Ma anche se volessimo comunque individuare e mettere sotto accusa alcune categorie di prodotti più criticabili, dovremmo in ogni caso operare delle distinzioni, ossia separare quelli che sono anche veicoli di sostanze nutritive importanti da altri che invece possono essere giudicati “inutili” o “superfuli” nel senso che, pur ottimi sotto l’aspetto edonistico, sono privi di validi apporti nutritivi.

Insomma, alcolici ed “energy drinks” non possono essere messi sullo stesso piano, ad esempio, dei salumi o delle cosiddette “merendine”!
E, ad esempio, fra queste ultime, è sbagliatissimo accomunare prodotti molto diversi fra loro, confondendo certe “barrette ricoperte” mutuate dalle abitudini nordamericane, con il 25% del peso sotto forma di grassi e capaci di apportare anche 470 calorie per 100 grammi, con certi prodotti da forno nostrani che coprono circa i tre quarti dello specifico mercato nazionale e che, oltre ad essere privi di coloranti, conservanti e grassi “trans”, sono semplicemente la riproposizione in chiave industriale delle classiche ricette tradizionali a base di pasta frolla, pan di Spagna e brioche, e sono caratterizzati da apporti calorici contenuti e da una composizione molto più equilibrata fra proteine, grassi (prevalentemente vegetali) e zuccheri.

Per facilitare consumi più corretti e approvabili occorre indirizzare ai consumatori una migliore informazione istituzionale (ossia promossa da istituzioni pubbliche), sensibilizzandoli riguardo ad aspetti come la grandezza delle porzioni (vanno promossi i formati ridotti, che facilitano il contenimento dei consumi), la frequenza dei consumi stessi e l’opportunità di non lasciare certi prodotti particolarmente attraenti nella libera disponibilità dei bambini.